Da Sultanganj a Bhagalpur sono 47 km di patimento. In mezzo, non c’è nulla, solo un tratto di fiume semi-prosciugato che tradisce anche i barcaioli più esperti e qualche villaggio di pastori. Tra tre mesi, invece, sarà il periodo delle piene e avrà una forza di un uragano. Spazzerà via tutto, compresi i villaggi i cui abitanti, alla fine della stagione dei monsoni, torneranno qui, come fanno da migliaia di anni e ricostruiranno da zero le loro case di paglia e bambù. Oggi però me la sono dovuta vedere con il fiume ai suoi minimi stagionali, non meno pericoloso perché proprio là dove il fiume ha poca acqua si formano più facilmente i vortici che negli ultimi due mesi hanno ucciso tre persone. Morire è l’ultima cosa che voglio quindi, questa mattina, mi sono fatto affiancare da una barca a motore e quando alle 12 è iniziata l’alta marea, sono salito a bordo della barca e ho proseguito fino a Bhagalpur.
Il proprietario della barca era molto chiacchierone e voleva a tutti i costi che ci fermassimo a visitare il suo villaggio, dove è nato e dove vive con la sua famiglia. È lui che mi dice che tra tre mesi di questo villaggio non sarà rimasto più nulla e alla mia domanda perché non scelgono un altro posto per insediarsi stabilmente lui mi dice che per loro non c’è alternativa. Questa è la loro vita da generazioni, l’unica cosa che possiedono sono dei bufali, che tutti i giorni portano al fiume per massaggiarli e coccolarli con l’acqua del Gange e questi campi in cui coltivano canna da zucchero, cavolfiori, patate e cipolle. Se gli offrissero un posto in città non saprebbe come sopravvivere. Mentre la moglie setaccia i semi di senape, lui mi dice che il Gange, dopo tutto, per loro è una benedizione perché quando il villaggio finisce sott’acqua il terreno si arricchisce di minerali che lo rendono perfetto per la coltivazione. L’acqua, ovviamente, è quella del Gange, che in alcuni tratti più a nord ha la concentrazione di batteri coliformi fecali 500.000 volte superiore al limite per le acque balneabili. È la stessa acqua che più tardi, quando riprenderemo il viaggio, berrà da un contenitore.
– Perché bevi quest’acqua pur sapendo che contiene batteri?
– Per abitudine e perché non abbiamo alternativa: ogni anno durante i monsoni i pozzi si chiudono e abbiamo smesso ci scavarli, ci rimane l’acqua del fiume.
Un’alternativa ce l’ha, invece: è nascosta dal sole in un angolo della barca, si chiama acqua in bottiglia! Mi dice che se la può permettere solo quando lavora, in giorni come oggi. L’osservo mentre ne beve un po’ e in quell’istante mi passa tutta l‘irritazione che avevo provato quando stamattina mi aveva comunicato il prezzo per il servizio di trasporto, che trovavo eccessivamente alto. Credo che abbiamo tutti quanti il diritto per nascita di bere acqua potabile, fosse solo anche in bottiglia. Gli chiedo com’è. Lui mi dice che preferisce, nonostante tutto, il sapore dell’acqua del Gange, ma è contento oggi di potersi concedere questa. Suona come una conquista.
Bahgalpur è un posto che non ti aspetti. Ti colpisce per il suo lerciume e per una bellezza sciupata, maltrattata. È la bellezza che si intravede negli edifici derelitti dei coloni olandesi e inglesi che qui avevano abitato fino alla fine del 1800. Entriamo in una di queste ville, un tempo meravigliosa, con una fontana all’ingresso, stanze dai soffitti alti e decorati e giardini pensili. Oggi di quella sontuosità non rimane più nulla e in quella piccola parte che sta ancora in piedi vivono tre donne, i loro figli e tre buoi. È un luogo di prostituzione. Sono molto triste e senza parole.